15/06/2020
Uno studio condotto nel laboratorio diretto da Elvira De Leonibus dell'Istituto di biochimica e biologia cellulare (Ibbc) del Cnr di Roma, che ha coinvolto anche ricercatori del Telethon Institute of Genetics and Medicine (Tigem) ha chiarito cosa accade nell’occhio umano quando sono presenti elevate concentrazioni di alfa-sinucleina, una proteina presente nel cervello.
Lo studio, pubblicato su Scientific Reports, rivela importanti informazioni sul morbo di Parkinson: è noto, infatti che accumuli di alfa-sinucleina nel cervello uccidono i neuroni dopaminergici, portando allo sviluppo dei sintomi motori come la rigidità, il tremore a riposo e la lentezza dei movimenti.
I ricercatori hanno dimostrato che, se nella retina sono presenti elevate concentrazioni della proteina, questa porta alla morte delle cellule amacrine che contengono dopamina, a una riduzione dell'acuità visiva e all’alterazione della risposta di adattamento alla luce, misurata con l’elettroretinogramma.
Lo studio ha utilizzato l'occhio come un "cervello in miniatura", nel quale si riproducono gli stessi meccanismi che si trovano all'interno del cervello e dove sono le cellule dopaminergiche che normalmente controllano l'acuità visiva, l'adattamento alla luce e, si ritiene, anche i ritmi sonno-veglia. I pazienti con malattia di Parkinson mostrano difetti della vista molto precoci e accumuli di alfa-sinucleina anche nella retina. Lo studio dimostra, per la prima volta su un modello animale, che l'alfa-sinucleina in grandi quantità uccide anche le cellule dopaminergiche presenti nella retina, in modo specifico e molto precocemente, dando luogo agli stessi difetti a carico della vista che si riscontrano nei pazienti.
La ricerca apre nuove prospettive sul fronte dell’individuazione della patologia in fase precoce: la retina è facilmente accessibile dall'esterno, e oggi c’è grande attenzione ai tentativi di sviluppare microscopi in grado di rilevare questi aggregati di proteine nell'occhio. Al momento, infatti, per diagnosticare le malattie neurodegenerative, l'unica possibilità di individuare questi aggregati è quella di prelevare il liquor con una procedura invasiva, che non può essere correlata ad altre misure cellulari. Nello studio è stata correlata la presenza di questi aggregati e i difetti della visione all'attività elettrica dell'occhio, che può essere misurata con strumenti non invasivi come l’elettroretinografia.
Si è, inoltre, dimostrato che i difetti della vista, e anche quelli elettrofisiologici, possono essere recuperati somministrando la levodopa, un farmaco che serve per produrre dopamina e che viene dato ai pazienti parkinsoniani per correggere i difetti motori. Anche questo è un dato importante, in quanto indica che la retina può essere considerata uno strumento di diagnosi precoce (fondamentale per tutte le malattie neurodegenerative) e un “modello di cervello” su cui testare nuove strategie terapeutiche.
Lo studio è il risultato di un lavoro di squadra tra i diversi co-autori dell’articolo, con un contributo particolare offerto da Federica Esposito e da Elena Marrocco del Tigem, esperte di elettroretinografia e di test per lo studio della visione nei modelli murini, da Alessia Indrieri, neoricercatrice Cnr e ricercatrice Tigem, esperta di patologie neurodegenerative dell’occhio e da Maria De Risi, ricercatrice Cnr-Tigem, esperta di proteinopatie.
Per informazioni:
Elvira De Leonibus
IBBC-CNR
Via Ramarini 33,
00015 Monterotondo Scalo, Roma, Italy
elvira@deleonibus.it
+390690091468
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